I mille colori della primavera, il giallo abbagliante dell’estate, l’arancio che accende l’autunno, il bianco che ammanta l’inverno. E il rosso che infiamma la stagione del fuoco. Sono cinque le stagioni dell’Etna, ognuna con il suo colore e con i suoi differenti modi di vivere il territorio del vulcano.
Le passeggiate nel tempo del risveglio primaverile nelle quali lasciarsi incantare dalle fioriture, dai profumi, dagli alberi che tornano a colorarsi di verde, dai torrenti che portano a valle le nevi sciolte sino a scorgere i primi rilievi che sfumano dal bianco al nero.
I trekking d’estate a piedi, con la bici, a cavallo. Lasciarsi dietro la canicola per respirare a pieni polmoni l’aria frizzante della montagna, profumata dalla fragranza delle resine dei pini, dei fiori di tanaceto che spuntano ai bordi dei sentieri, del fieno nelle radure assolate e colonizzate da poa e festuca.
La lenta ricerca, nei boschi, di funghi e castagne, immersi nei panorami d’autunno infiammati di giallo e d’arancio. Costeggiare le vigne che, proprio come un tempo, si animano per la vendemmia e perdersi nelle viuzze dei paesi pedemontani inebriate dall’odore del mosto.
La conquista delle vette nella stagione del gelo, quando il bianco trasforma i paesaggi del vulcano e il vulcano indossa la sua livrea invernale. Risalire, quieti, i panorami nivei con la funivia, la seggiovia, gli skilift sino a cogliere l’emozione di sciare guardare l’azzurro del mare.
E infine la stagione del fuoco, il rosso che arroventa le notti, le lunghe strisce di magma che scendono a valle, le fontane di lava che, come fuochi d’artificio, rischiarano il cielo. E piccoli omini in marcia verso i torrenti incandescenti per lasciarsi stregare dalla forza della natura.
E per ogni stagione un modo differente di scoprire il Mongibello, farsi rapire dalle sue leggende e dal mito della casa di Vulcano e dei Ciclopi. Con l’auto, o con il trenino della Circumetnea rileggendo le sublimi righe lasciate da Edmondo De Amicis, risalire i diversi versanti, scoprire le campagne e, in esse, i crateri diventati vigne sconfinate, e meravigliarsi di una pietra, nera, che s’è fatta muro, palmento, torretta e, nelle città, che s’è fatta casa, chiesa, piazza, palazzo. E, poi, piegarsi ai gusti della cucina, al carattere d’un vino definito dagli antichi “nettare degli dei”, di quei frutti e di quei dolci che recano addosso il sapore dei minerali del vulcano.E portare, per sempre, nell’animo il dubbio: ma questa è la bocca degli inferi o, piuttosto, la porta del paradiso?