Zignale e Ipsale, cosa può essere? Zignale e Ipsale uniti, insieme, può essere cabaret: lo smilzo-spalla e il piccoletto-parla-assai. Oppure anche due personaggi dei cartoni: Zignale un vecchio lupo sdentato e spelacchiato, Ipsale il suo amico scaltro, una lepre, che gli ha insegnato a masticare erba e a vivere più a lungo senza il sapore del sangue. Per esempio.
Invece no. Zignale e Ipsale era un ristorante che stava su una curva, a mare. Era proprio l’ultima curva dell’intero edificio vulcanico. Oltre, sugli ultimi bastioni di lava, la strada non poteva andare e girava a sinistra. “Zignale e Ipsale, pesce fresco, chiusura lunedì”.
Molte persone si fermavano per curiosità ed entravano col sorriso di chi s’aspetta qualcosa di anomalo e di unico.
Solo alcuni si sedevano guardinghi e silenziosi, in attesa di qualcosa di familiare, come soltanto “buongiorno, prego signori”. Pochi, pochissimi, erano quelli che sembrava fossero venuti a piedi, portandosi dietro quella certa leggerezza capace di superare di slancio un nome così strano come Zignale e Ipsale.
Lei e lui vennero a piedi. Non si sa esattamente da dove, ma vennero a piedi. Entrarono come fosse il bar all’angolo e si sedettero a un tavolo che non stava precisamente né dentro né fuori, da dove si poteva guardare il mare, ma anche no.
Lui si sedette e guardò lei. Lei guardò lui e si sedette un pelo dopo di lui. Lei aveva capelli perfettamente distratti. Lui corti, talmente corti che per un calvo erano già lunghi.
“Buongiorno, prego signori”.
Lui guardò lei e disse “acqua”. Lei guardò il mare.
Stavano litigando furiosamente, ma in silenzio. Con la naturalezza di chi l’ha già fatto dozzine di altre volte. Nessuna pretesa di lite, nessuna voglia di pace, solo la constatazione di un’aspettativa non mantenuta e di una mantenuta libertà. E non era nemmeno domenica, che – lo sanno anche le pietre – è il giorno in cui viene meglio a tutti, di litigare, per via della maledetta sensazione dilagante che prende chiunque e qualsiasi latitudine, e che ha il sapore ansioso e sconfortante di una prova generale di fine del mondo.
Quel giorno, da Zignale e Ipsale era venerdì e le previsioni del tempo per il fine settimana, portavano alta pressione con temperature oltre le medie. Il mare, a guardarlo da lontano, sembrava calmo e silenzioso, ma in spiaggia le onde lunghe rovinavano con furia e fragore.
“Meglio finirla”, disse lei, con le lentiggini incazzate.
“Sei incosciente”, rispose lui, raspandosi il cranio. “Il tuo profondo senso di coerenza ti porta all’altro estremo, senza voler capire”.
“Io capisco che non stai bene con me, che ti mancano note che io non so suonare”.
Un gabbiano era sceso ad ascoltare meglio, mettendosi con la testa di lato, anche per non perdersi una mossa di questa splendida litigata. Il gabbiano atterrato si chiamava Gab, perché Zignale e Ipsale davano nomi propri a tutti a tutto. Non dicevano “il cerniotto al tavolo 3” ma “Otto al Tavolo del Re”. Il sale era Sal, il pane Pan, l’olio Ol e il vino, il vino poteva essere Biàn o Ross. Soltanto col dolce erano un po’ strani e la cassata era Cassata, il babà era Babà, le crispelle di San Giuseppe erano le Crispelle di San Giuseppe.
Zignale e Ipsale erano, in quel momento, da Ina in cucina, a preparare gli antipasti per lei e per lui, quando videro il gabbiano Gab che volle ascoltare meglio la litigata di Ei e Ui.
“Acqua, signori”.
“Acqua”, confermò Ui.
Ei guardò il mare, incontrando lo sguardo di Gab. Ui bevve un bel bicchiere d’acqua fresca, mentre Ei s’attorcigliò le braccia e le mise conserte.
“Scusate, signori, volete ordinare? Posso suggerire spaghetti al nero…”
“La tavola apparecchiata come si deve, senza una piega, senza niente in più che l’occhio non vuole, né qualcosa in meno che l’occhio desidera. Come fosse festa, con le posate buone, i bicchieri di cristallo e i piatti di porcellana, sul tavolo da pranzo. Metti i candelabri con le candele accese, il pane affettato nel portapane d’argento e i tovaglioli di stoffa, bianchi, grandi e piegati a pennello. Vino già caraffato e acqua fresca in brocca. Metti pepato e crudo ben stagionato nel disco di legno, la ricotta di pecora a parte, nella terrina di ceramica. Questo mi manca. Me ne fotto – sì, Ui disse proprio me ne fotto, ma lo disse pacatamente, come fosse già un ricordo – di andare al ristorante, in pizzeria o al pub. Non ho la tavola apparecchiata come si deve”.
“La tavola apparecchiata come si deve?”, Ei srotolò le braccia, allungò il collo e non sgranò gli occhi. Li socchiuse, per far passare un taglio di luce.
Il gabbiano Gab sobbalzò: “La taavola aapparecchiaata coome si deeve?”. Ripetè proprio così, come un pappagallo.
Zignale e Ipsale pensarono che Volo non fosse apparecchiato bene, si guardarono negli occhi e alzarono le sopracciglia, ma non dissero niente, proprio niente.
In questo spiffero di tempo, Meriere pensò di star fermo e zitto, anche se avrebbe tanto voluto dire: “… Spaghetti al nero di seppia, oppure fettuccine con spado e gamberetti e per secondo, abbiamo un cerniotto freschissimo da fare al sale. Signori…”.
Meriere tenne la penna in mano, dritto e fermo e zitto come una guardia, meglio di Gab che s’agitava sul ferro e malediceva il fatto di non poter tendere le orecchie.
“Già, la tavola apparecchiata come si deve.” Ui buttò le spalle indietro e s’appoggiò alla sedia.
“La tavola apparecchiata come si deve”, ripetè Ei, piano.
Zignale e Ipsale strinsero all’unisono le loro rispettive labbra, e anche i loro menti s’arruffarono: attendevano la scena dopo.
“Non c’è nient’altro che mi manca, e questa è solo una lite, solo una lite”.
“Non è vero, non ti vedi quando t’arrabbi: parli sempre più piano, fino a star zitto. E io sto malissimo nel vederti così fuori di te. E non posso farci niente di più di quello che faccio…” quasi quasi a Ei veniva da piangere.
“Ma è soltanto una lite. Perché? Non dirmi che a te non manca qualcosa”.
Meriere pensò a quanto fossero stati veloci e sbrigativi quei due vecchietti di iersera. E Gab tese il collo.
“Sì, mi manca… ma la tavola, la tavola io non l’apparecchio come si deve per non costringerti a pranzare in quel modo ben preciso. Sì, ben preciso… la precisione è lo steccato messo alla libertà”.
Ui strinse le labbra e arruffò il mento, si tirò su, aggrottò le sopracciglia e disse: “E’ vero”.
Soltanto questo disse, ma fu come uno sparo.
Gab cascò giù. Nella mente di Meriere, i due vecchietti smisero di cenare. Zignale e Ipsale appesero se stessi alle loro sopracciglia e spalancarono gli occhi. E’ la fine della lite, pensarono.
“E allora perché non mi abbracci?”, urlò Ei.
“Perché aspettavo che me lo chiedessi”, sbraitò Ui.
Improvvisamente, tutto si mosse.
Gab si rialzò, si sistemò e molto incazzato, riprese a volare, stramaledicendo il fatto di non aver orecchie.
Meriere vergò in versi: “Niente di meglio che linguine allo scoglio; e per secondo, il pesce spada più buono del mondo”, e se ne andò felice come una pasqua. Zignale e Ipsale tirarono un sospiro di sollievo, s’asciugarono la fronte e buttarono giù due etti e mezzo di pasta nell’acqua bollente.
I due vecchietti, nella mente di Meriere, s’alzarono e se ne andarono. Per la prima volta in tutta la loro precisissima e lunghissima vita, senza pagare.