Avevo poco più di vent’anni, quando nacque il Parco. Studiavo geologia e negli anni passati avevo esplorato l’Etna con la bici e con una Ducati elaborata cross: dove le ruote si fermavano, continuavo a piedi, arrampicandomi, strisciando in passaggi assurdi. Volevo l’orizzonte integro, i contorni secchi, la dimenticanza delle tracce. E quando mi trovavo circondato da sola natura originale, e mi pareva che la pelle si aprisse incollandosi alle pietre e alle cortecce degli alberi, mi chiedevo: “Ma dov’è il resto del mondo?” Che cavolo sta facendo, la gente, invece di essere qui?”. Forse era il segnale della vita, il suo senso, esserci nell’unità. Forse è stato per questo che poi, nella primavera del 1987, fui contento del vagito del Parco dell’Etna. Pensai: “Tutto questo è salvo”.
Ma dopo, con gli anni che scorrono e i capelli bianchi che avanzano, ho toccato il bordo di un vuoto interiore sociale. Non basta che la natura venga protetta. Non basta che venga valorizzata con riconoscimenti universali. Non basta nemmeno che venga comprata, gettonata come il post più cliccato della Sicilia. Perché non è solo una merce, la natura, e quel che resta per tutti al tramonto è uno strascico di cicche e carte sporche per terra; per pochi, invece, restano gli affari più o meno legali. E l’assalto ricomincia il giorno dopo, erodendo i contorni di originalità, mangiando il clima di riservata bellezza, pestando silenzi fondamentali.
La guardo oggi, questa natura protetta, e mi pare stanca, quasi in difesa, una bestia che si cura ogni sera certe ferite e di giorno è costretta a vivere allerta. Non è solo questione di insufficienza di uniformi verdi, ma forse di una certa mancanza di organizzato rispetto. L’adeguato accostarsi ai luoghi: non si entra tutti in una volta ai Musei Vaticani, si fa la fila, si parla piano. Non si può andare in cinquanta-sessanta insieme alla Grotta del Gelo. Non si può chiedere permesso di passaggio ai Sartorius. Non si può arrivare alla Galvarina e doversi allontanare perché trenta persone fanno festa con la radio a tutto volume. E non si può nemmeno pensare che il rimedio a tutto questo siano i picchetti umani, o la telecamere, perché sarebbe tanto triste quanto l’ora d’aria del carcerato.
Dovremmo una volta per tutte comprendere che il Parco dell’Etna è una realtà molto diversa da quelle tipiche montane, perché la distanza con la fascia urbanizzata qui è ridottissima e le vie di accesso sono comode, con tempi rapidi. Dunque, il filtro naturale che prepara al cambiamento di scenario, i tempi necessari per indossare una coscienza rispettosa adeguata, quell’ambulacro di attesa che c’è altrove – come per certi versi anche sui Nebrodi –, qui manca.
E allora penso che nei prossimi anni, il Parco dell’Etna sia chiamato alla necessità di pianificare un progetto di cultura organizzata. Come fosse l’invenzione di un brano musicale preciso, capace di incantare e unire, grandi e piccoli, stranieri e catanesi, che però deve essere ascoltato con misura.
Dite, quale misura? Quella esatta oltre la quale l’umana condivisione del bello, che eleva l’anima nel sorriso, si perde nel disumano consumo, che la banalizza nella risata. E all’uomo – a noi uomini – non resta niente in più di prima, se non una foto su Facebook.
Tanti auguri, Parco dell’Etna.