Incipit del romanzo “Quasi inverno” di Sergio Mangiameli, di prossima uscita prima dell’inverno.
Uscì fuori dalla casa e respirò profondamente, come tornato alla luce da una lunga apnea. In effetti, il sole lo colpì, Vincenzo Ponte, ma come se si trovasse lì quasi per caso: giusto per un’attenzione veloce, un tocco leggero. A guardarlo, il sole, non avrebbe fatto male a nessun occhio umano: troppo al di là di un intrigo spoglio di rami e alberi, troppo basso sull’orizzonte.
Le chiazze di neve confondevano il passaggio terrestre che pareva anticipare quello del cielo. Sembrava già inverno, ma non lo era.
Il dottor Vincenzo Ponte, medico legale del paese, aveva appena finito di ufficializzare la morte del vecchio Quinto Di Miele, rinvenuto senza vita qualche ora prima. Era la mattina del venti di dicembre.
Il maresciallo non gli diede tempo: «Dottore, mi faccia avere quanto prima il referto completo». Aggiunse per favore, al limite dello scadere.
Quasi nessuno pensò a una fine violenta – era tutto in ordine a casa, non mancava niente e perfino il portafogli era intatto, con settanta euro dentro. Ma era la prassi e doveva essere rispettata anche nei tempi.
Quinto Di Miele non aveva nemici, ma nemmeno amici. Forse nessuno lo avrebbe ammazzato, ma probabilmente era anche vero che qualcuno non lo avrebbe nemmeno salvato.
Il dottor Vincenzo Ponte, buttando fuori l’aria, annuì in silenzio al maresciallo. Aveva solo quarantadue anni, era sposato da undici mesi, si era appena trasferito dalla sua città in quella zona carente, distante un centinaio di chilometri – era forse davvero al suo inizio di vita da adulto –, ma aveva capito bene che adesso aggiungere una parola a quella morte, sarebbe stato semplicemente di troppo. Non c’erano più parole disponibili, come le foglie scomparse dai rami, tutte a terra per servire la terra. Che avrebbe preso e tenuto il vecchio Quinto Di Miele.
Si affacciò verso il bosco, appoggiandosi alla ringhiera in legno. Guardò dentro, scrutando quegli alberi che avevano ascoltato, guardato, sentito giorno dopo giorno la fine di quell’uomo, che aveva vissuto tra di loro in solitudine per quasi due mesi.
Chissà se nel bosco cercò una risposta, il dottor Vincenzo Ponte, o se proprio in quell’attimo una ruga nuova iniziò a formarsi sul suo volto. Una di quelle che s’intravedono dopo i quaranta, e diventano incisioni profonde dieci anni dopo. Chissà il suo sguardo destabilizzato a cosa aspirasse esattamente, puntato nell’aria leggera, tra i tronchi fitti dei castagni.
Non fu la morte naturale di un vecchio che viveva da solo, a fargli perdere il filo della giornata – ne aveva contate nella sua carriera. Fu quello che aveva visto nella stanza dove si trovava il corpo di Quinto Di Miele.
Il vecchio giaceva disteso sul divano, con la gamba sinistra fuori dal bordo, il piede ancora a terra. Teneva un plaid tra le dita, come se avesse pensato di tirarselo su. Sembrava come se non avesse avuto più tempo per far queste due cose: la gamba da alzare e il plaid da tirare. Tutte le forze erano finite, il tempo scaduto. E lui, il vecchio, rimasto così, senz’altro da poter fare nel momento in cui seppe che la morte stava arrivando.
Avesse avuto un grammo di energia in più, avrebbe messo la gamba sinistra accostata alla destra, si sarebbe tirato il plaid fino al collo e avrebbe atteso – aveva pensato il medico legale quando si era trovato all’interno di quella casa.
Guardò la finestra che stava un palmo sopra il divano, cercando di seguire il filo spezzato dagli occhi dell’uomo. La luce cercata e spenta. Osservò il volo di una ghiandaia finire su un ramo, che avrebbe oscillato al suo peso.
Non gli venne in mente che la morte avrebbe potuto accelerare. Stava cercando di capire come mai fosse possibile, invece, che un cristiano sapesse esattamente quando sarebbe finita la propria luce. Come si fa a sapere da svegli esattamente quando ci addormenteremo? Eppure, compì questo, il vecchio Quinto Di Miele: il passo di una danza reso possibile da un virtuosismo di fantasia. La sua prima e ultima. E come tale, rischiosamente in bilico tra il sogno e l’utilità.
A un metro dal divano dove giaceva il corpo, c’era un tavolo con tre sedie. Due erano accostate al bordo in ordine, la terza a capotavola si trovava un po’ allontanata e messa di tre quarti, voltata proprio verso il divano.
Sul tavolo c’era una pila di fogli scritti, una risma iniziata e una penna biro ancora aperta. Il foglio, che sembrava l’ultimo e giaceva in mostra con un’ottima calligrafia, terminava con una frase compiuta, ma senza punto. I fogli che lo precedevano, quelli impilati accanto, erano ugualmente pieni di una scrittura molto ben leggibile. Tutti, indietro fino all’inizio, in cui il titolo faceva Tutta la verità.
Scorrendo dall’inizio, dopo le dediche, c’era un’epigrafe: Si passa dall’errore.
Il dottore Vincenzo Ponte staccò il cellulare, scese i tre gradini e si avviò a piedi verso il bosco.