Quest’anno l’eco dei canti, degli inni, delle esortazioni proprie della terza festa religiosa più grande al mondo e la visione di un popolo, il popolo di Agata in festa, mentre accompagna il fercolo tra le vie della sua città, tardano a scemare.
L’artefice di quello che può considerarsi un prolungamento del contatto (seppur virtuale) tra la Patrona di Catania e i catanesi è l’Associazione Etna Ngeniousa- realtà di valorizzazione del patrimonio storico-culturale, presente attivamente sul territorio da quindici anni – che ha prodotto e organizzato una particolare visita, drammatizzata, nel luogo più intimo del culto dedicato alla martire catanese: il Santuario di Sant’Agata al Carcere.
La visita drammatizzata dal titolo “Agatha Patrona” – che per motivi tecnici ha subito lo slittamento di una settimana e l’annullamento delle prime tre date – ha debuttato ieri alla presenza dei primi spettatori richiamati e dal luogo e dalla particolarità dell’evento che è incentrato su di un doppio racconto.
Perché la storia di Agata può essere raccontata da tanti punti di vista e ieri abbiamo ascoltato, grazie alle straordinarie performance dei due attori Barbara Gallo e Francesco Bernava, quelle del centurione e della madre di Agata – nella prima parte – e quelle di un cittadino catanese scampato al terremoto devastante del 1693 e di Agata stessa, nella seconda parte.
A tessere le due trame con il filo conduttore di una luce che, particolarmente in questa chiesa, ha un significato simbolico importante è Matilde Russo, presidentessa dell’Associazione.
Tra il quadro del pittore siciliano Bernardino Niger, che a un certo punto della mattina viene attraversato da un raggio di sole che illumina la figura della Santa, tra le sue impronte impresse sulla lastra di pietra lavica – a ricordo della perseveranza e della caparbia con cui Agata tiene accesa la sua fede – e tra l’ingresso di ferro della celletta del carcere, luogo di mistico silenzio, si sono alternate le voci narranti di una storia che dura da quasi duemila anni e che fonde inscindibilmente il nome della Santa alla vita dei catanesi.
A bordo di una fantomatica macchina del tempo, attraversiamo le epoche in un excursus storico e culturale che ci dà contezza del luogo in cui si svolgono i fatti. Una luce rossa illumina il Niger, accendendo le fiamme della fornace e rendendo il quadro inquietantemente vivo; nel sottofondo il suono di un sassofono – suonato da Ferdinando D’Urso che accompagna i momenti più intensi della visita – anticipa, con le sue note, gli stati d’animo degli attori e di chi, di lì a poco si immedesimerà con essi rendendo l’atmosfera carica di pathos. L’ingresso in movimento degli attori, che percorrono la navata della chiesa – chi correndo disperato chi mestamente camminando -, segna anche l’ingresso di tutti coloro che assistono in una dimensione altra dove ciò che regna è dolore, sofferenza, rabbia per le ingiustizie, o vergogna per i torti inferti, dove un sentimento potente cresce insieme alle grida straziate della madre di Agata, si ammorbidisce di pietà per le parole del centurione convertito e infine trova, nel colloquio tra Agata ormai Santa e il primo iniziato al rito della vestizione, il suo finale di riscatto della forza della fede nelle proprie idee sulla violenza e sulle ingiustizie della vita. Un messaggio quanto mai attuale.
“…sì i miei carnefici, in ogni tempo hanno gli stessi nomi: la paura, la mediocrità, il compromesso, la corruzione, la violenza. Siate forti, abbiate Dio nel vostro cuore. Non c’è forza dell’uomo o della natura che possa abbattervi così, come non abbattè me nel mio combattimento contro Quinziano”, le parole di Agata, dalla voce assertiva ma mai dura di Barbara Gallo, sono vive, eterne e in fondo sentite dai catanesi, che nelle varie epoche hanno subito terremoti e dominazioni, sono crollati e altrettante volte sono risorti, come la fenice.
Dalla visita drammatizzata si esce così, con quella sensazione, tipicamente catanese di avercela fatta ancora una volta. Di non cedere mai. Stanchi ma in piedi.
Perché della stessa sostanza di Agata siamo fatti: fluidi come l’acqua di cui la nostra terra è ricca e duri come la roccia dell’Etna.
La visita drammatizzata si conclude nel salone espositivo dove Matilde Russo continua la spiegazione dei luoghi annessi al carcere, di solito non aperti al pubblico, se non su prenotazione.
Le repliche della visita drammatizzata sono previste per venerdì 16 e sabato 17 febbraio alle 20.30.
INFORMAZIONI
Contributo di partecipazione €15,00
Prenotazione obbligatoria.
338.1441760 / 351.3792189
carceresantagata@gmail.com
Nelle foto: Barbara Gallo, Francesco Bernava e Matilde Russo. Foto di Barbara Mileto