STORIE
DELL'ALTRO MONDO
Vai alla lettura Di Sergio Mangiameli foto ©Roberta Scicali

Claiodo, il racconto del tempo

Questa è la breve storia di Claiodo, trascritto all’anagrafe il giorno dopo essere nato, e dunque venuto al mondo in contumacia, il giorno prima. Così il destino gli dovette concedere, per forza e con esattezza, un giorno in più.

Era successo che Gufo stava in tensione, e il giorno antecedente l’aveva passato in bianco – non aveva chiuso occhio un minuto –, gufando per la campagna, tra una quercia e una ginestra, fregato dall’adrenalina in esuberanza, che’ stava per diventare padre per la prima volta. Nel paese de La Tina, da generazioni infinite, erano i gufi a intendersene di consegne di nuovi arrivi, flappando con voli silenziosi fino al davanzale della finestra dell’Ufficio Anagrafe. Qui, i gufi maschi si fermavano un attimo, si sistemavano la cravatta, fissavano, coi loro grandi occhi, gli occhi del messo fino a incantarlo, e infine con l’ala allungavano il foglio piegato, nel quale c’era scritto nome e cognome del nuovo arrivato. La data era quella li’, del momento.
Quindi, i gufi si tiravano la giacca, drizzavano il collo e riprendevano il volo flappato, stavolta radente, daccapo in ricognizione per cogliere il minimo decibel acuto di donna, a timbro del parto in corso.
Dunque, quella volta per Claiodo, Gufo era semplicemente rimasto indietro, essendosi poi addormentato di botto, all’imbrunire, e passando l’intera nottata in un sonno talmente profondo che al risveglio credette di aver vissuto un incubo, e che il giorno prima non fosse mai esistito. Quindi, prese il foglio con su scritto Claiodo Tirabuchi, lo piegò perfettamente a metà col becco, si abbottonò il terzo bottone della giacca, e si lanciò in volo silenzioso verso il davanzale dell’Ufficio Anagrafe di La Tina.
Ventotto aprile. Ormai era lì, nero su bianco: nato a La Tina il ventotto aprile. Suo figlio, invece, ancora no, non era nato. L’uovo gufino non mostrava fretta di rompersi.
Claiodo Tirabuchi venne su lento, come se fosse in intima consapevolezza del debito del destino e sentisse in tasca un grumo di tempo in più. Intendiamoci, non era tardo, Claiodo, solo lento.
Cioè, sano, ma con un’inspiegabile calma dentro, inattaccabile. E tuttavia, arrivava comunque in orario, sempre, a qualsiasi appuntamento di gioco o, poi, di lavoro. Alle donne, si presentava preciso, mai vestito in eccesso o in difetto. Come se quel certo adagio fosse correlabile e addirittura necessario per una garanzia di comoda esattezza.
Sembrava portasse dentro una misura diversa, larga, con maglie simili a quelle affidate al tempo degli altri, solo più distanti tra loro: distanti nel tempo.
Non si riusciva a vedere niente di materiale, che prendesse a riferimento lo spazio e facesse intendere con chiarezza la cosa diversa. Era solo una questione di percezione, questa cosa diversa.
Per esempio, c’erano persone che non si accorgevano del suo tempo allungato, e per loro Claiodo rientrava nella norma. Forse erano persone più simili a lui, che alla norma, borbottò sottovoce molti anni dopo, una sera, Gufo ormai anziano. Forse Claiodo e suo figlio Grufolo, che poi diede la beccata all’uovo precisamente un giorno in ritardo, erano complementari, pensò la Roverella, che su un ramo sosteneva Gufo, in attesa della prima caccia della notte.

Fu proprio in un’altra notte di caccia di molto tempo dopo, che Gufo, ormai vecchio e con i sensi offuscati, morì per sbaglio. Vide un topo procedere con lentezza, lo afferrò e se lo mangiò, senza aver saputo valutare che l’animaletto stava ansimando per via del veleno ingerito, un topicida in difesa di un sottotetto. Grufolo prese il suo posto e, per volontà di Roverella e altri alberi del bosco, divenne anche il compagno di Claiodo, per quel senso di completezza che la natura vuole.

Un pomeriggio frizzante di nuvole in rapido veleggiamento, in cui infilarsi nel bosco fitto ha il calore morbido della tana ritrovata, a Claiodo venne di rallentare fino a fermarsi. Sostenere il tempo, a un tratto, era diventato faticoso. Se ne liberò quando posò lo sguardo su un tronco, foderato di uno spesso strato di muschio. Si piegò avvicinandosi, mirando le papille verdi di quell’organismo umido, puntato da un fascio di luce così vivo e profumato che pareva un altro bosco in miniatura con altre vite piccole all’interno, forse anche con un altro sé essenziale, d’origine.
Con questo riverbero in testa, Claiodo entrò nell’incanto e il tempo non ebbe scampo. Il tempo andò via, e a lui rimase l’infinito, l’abissale emozione di non sentire più i limiti tra sé e il resto.

Fu proprio lì che decise di inquadrarlo, il tempo, e dargli una cornice naturale.
Prese una parte di corteccia sbrecciata con addosso frammenti di muschio, poi raccolse dei sassi con facce lucide e alcuni pugni di foglie rimaste. Li caricò con cura nello zaino, riprese il vento che toreava al di fuori del bosco, e sotto un nembo in decomposizione, sfrillò via, lasciando di se’ nemmeno l’odore.
Nel cortile della sua casa, c’era una capanna grande quanto l’ultimo desiderio. Aprì la porta e sul tavolo da lavoro, con la delicatezza di un genitore, pose la corteccia, il muschio, i sassi e le foglie dimenticate dal tempo. E lasciò che il Tempo stesso potesse osservare per una sola notte ancora, quel contrasto sparso che l’indomani sarebbe diventato armonia.
Quando richiuse la porta, si accorse della presenza aerea poggiata sul ramo. Ferma contro lo scuro della sera, la sagoma di Grufolo gli sembrò necessaria per bilanciare l’irriverente questione di come un uomo da solo non possa armare un contorno e metterci dentro il Tempo. E deglutire una pillola di roba conclusa.
Nella costante fretta che gli assediava ogni penna – era nato il giorno dopo, dunque si trovava in debito di tempo verso il destino –, Grufolo non provò per niente a gufare, come qualsiasi altro suo simile avrebbe fatto in casi del genere. Lui invece cantò. Anzi, musicò un suono così basso da zittire ogni altro ronzio, rumore, cicaleccio. Le note pesanti tagliavano le caviglie a tutte le altre, rompendone la statura e abbattendole. “Solo io stasera, perché è la mia sera, quella che ho inseguito per una vita, per far cogliere il senso domani a chi ci sarà”.
Claiodo rimase con la testa inclinata, quasi a voler riprendere le indispensabili vibrazioni, che stavano smariando l’aria. Poi, insieme, come se avessero provato decine di volte fino alla perfezione in un’orchestra consumata, Claiodo ruppe e Grufolo si mosse, prendendo il volo. E la notte tornò a scorrere normalmente.

L’indomani, Claiodo realizzò il suo progetto.
Dentro la cornice della corteccia di leccio e di muschio superstite, in un contorno di rocce nettate e messe a colla, al di qua di uno sparpaglio distratto di foglie perdute, lui ci mise due lancette imperniate al centro. Una per i minuti, l’altra per le ore.
Le varianti diventarono innumerevoli: di ginestra e licheni, di rose selvatiche e pigne, tanaceto e saponaria, perfino polvere del Terziario e resina di Adesso.
Il Tempo era stato così servito agli altri. La sua essenza rimbalzava nel limite della natura che il suo artigiano gli scovava e inventava ogni volta. Un gioco tra le sponde opposte di ritrovamento e fantasia.
“Che meraviglia!”, disse la donna che volle acquistare il primo dei suoi orologi. Non c’era un orologio sballato, tutti lo stesso battito, uguale respiro, tic-tac, tic-tac senza il minimo sbavo.
La lentezza determinava la precisione e non viceversa. Come se avesse saputo prendere al Tempo il suo antichissimo nocciolo: il destino non tarda mai a compiersi.
Claiodo non visse a lungo, ma bene. Non si spostò mai da quel luogo d’origine, come del resto tutti i gufi fanno, perché si sa che la saggezza dei gufi li porta a considerare un luogo non uguale a un altro, perché è nei luoghi che l’anima lascia traccia di sé.
Quando Grufolo seppe tramutare la propria fregola in una più produttiva ansia creativa, si propose a Claiodo nella sua forma migliore, con tanto di cravatta di lana sul colletto alzato di una camicia di cotone frappato, con sopra una giacca di tweed con coda biforcuta; gli occhiali non furono un vezzo, come qualcuno alla spicciolata volle credere, ma un bisogno per mettere a fuoco i pensieri migliori che avrebbe trasmesso a Claiodo, per i suoi orologi più raffinati e unici.
La donna che alla fine chiuse gli occhi a Claiodo e gli tenne la testa sul grembo, sussurrandogli una dolcissima ninna-nanna, fu la stessa della sua prima vendita.

Questa volta, però, d’accordo col destino, il suo inseparabile amico Grufolo spense la luce all’ultimo secondo, e tutti gli orologi si fermarono per un giorno preciso, nel quale l’ultima sera divenne la penultima. E Claiodo, che aveva smarrito la consapevolezza del suo debito col destino, poté amare la sua donna, per un giorno e una notte ancora.

Sergio Mangiameli è del ’64, geologo, giornalista pubblicista, interprete naturalistico, vive sull’Etna. Ha pubblicato i racconti “Dall’ulivo alla luna” (Prova d’Autore, 1996) e “Rua di Mezzo sessantasei” (Il Filo, 2008), i romanzi “Aspettando la prima neve” (Rune, 2009), “Dietro a una piuma bianca” (Puntoacapo, 2010), “Sul bordo” (Puntoacapo, 2013), “Come la terra” (Villaggio Maori, 2015, che ha partecipato a MontagnaLibri 2016 del Trento Film Festival), “Quasi inverno” (A&B Editrice, 2018), "La nevicata perfetta" (A&B Editrice, 2020). Ha scritto i testi di “MicroNaturArt – voci dal microcosmo” (Arianna, 2014), esperimento letterario di fotografia scientifica; i racconti di “Ventiquattr’ore – fotografie di finestre e parole intorno” (Puntoacapo, 2016), i cui scatti sono di Lino Cirrincione; e, assieme al vulcanologo Salvo Caffo, “Etna patrimonio dell’umanità, manuale raccontato di vulcanologia e itinerari” (Giuseppe Maimone Editore, 2016), con le illustrazioni di Riccardo La Spina. Ha scritto i testi dei film corti “La corsa mia” e “Idda”, e i monologhi “Questa storia” e “Il gioco infinito”, visibili entrambi su YouTube. Sul portale web Etnalife, scrive racconti etnei per la rubrica letteraria “Storie dell’altro mondo”. “La piuma bianca” è il suo blog sul magazine online SicilyMag. L’esperimento nuovo è “Le colate raccontate” – vulcanologia storica dell’Etna e narrativa surreale insieme, tra esattezza scientifica e finzione letteraria in racconti –, portato in scena col vulcanologo Stefano Branca.
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