Secondo racconto ispirato dalla conferenza tenuta a Nicolosi il 20 agosto scorso dal vulcanologo Stefano Branca (lo scienziato ha esposto in italiano la ricerca “Impacts of the 1669 eruption and the 1693 earthquakes on the Etna Region – Eastern Sicily, Italy: an example of recovery and response of a small area to extreme events” di S. Branca, R. Azzaro, E. De Beni, D. Chester e A. Duncan, pubblicata su Journal of Volcanology and Geothermal Research 303 – 2015), e liberamente tratto da fatti realmente accaduti. Tuttavia, la ricostruzione, l’allocazione della storia, i dialoghi e i personaggi minori sono frutto di invenzione narrativa.
“Signore, signore!” – il soldato non bussò alla porta della stanza, sapendo di importunare già con la propria voce l’applicazione di don Riggio, ritornato a Catania da Palermo.
Avesse osato entrare, durante il consueto amplesso pomeridiano del suo signore con la cortigiana di turno, il soldato avrebbe senz’altro convissuto con i ratti e i propri escrementi per una settimana nelle segrete del castello.
“Signore, c’è il messo di don Diego Pappalardo, che ha urgenza immediata di conferire con lei” – propose con cautela da dietro la porta.
Dall’interno si sentì un gemito finale e dopo alcuni secondi la porta si schiuse e venne fuori la sagoma arruffata, un po’ scomposta, ma dall’aria chiaramente soddisfatta, di don Stefano Riggio, signore nominato dal viceré per la gestione dell’emergenza vulcanica per Catania.
“Ignorante patentato, illetterato idiota. Urgenza immediata è una ripetizione: o l’una, o l’altra”. Lo fissò, ma vide il nulla nello sguardo vitreo del ragazzo, un palmo più alto di sé. Non c’è niente da fare, quannu si dici longu a màtula…, considerò don Riggio. E provò a cambiare programma, così per sfizio: “Quest’estate del ‘69 è più calda delle altre, o mi sbaglio, soldato? Ho sudato un po’ per inforcare la pulzella fino alla fine… o sarà forse il calore della lava, che non la finisce di rompermi i coglioni da quasi quattro mesi…”
Il giovane soldato non poté fare a meno di traguardare pochi passi dietro il fianco di don Riggio. C’erano carni bianche, parti proibite in languido abbandono… ma da soldato qual era, non batté ciglio e non si scompose. Don Riggio pensò che in fondo i soldati, per essere soldati, devono essere esattamente così. Lui non lo era mai stato, non aveva lavorato un solo giorno in vita sua, perché il lavoro è l’ultima cosa che necessita a un uomo e la prima cosa che deve fare un asino.
“C’è il messo, eh? Diego avrà cambiato idea, verrà con i suoi duecento uomini a darmi una mano, e io spenderò una parola per lui a Francesco (1), che gli passi la ricostruzione di Nicolosi e il potere sul nuovo paese. Eh, eh, eh… caro mio soldato alto e scuro, qua siamo a Catania, ah? E sai come diciamo a Catania-Catania? Ca cumannàri è megghiu di fùttiri (2). Fallo entrare!” – disse con una veronica di tono in alto, come una cannonata di pepe sulla panna. Si voltò di scatto verso le terga esposte della cortigiana: “E tu, componiti, intanto! Che questo è il Castello, non ‘n buddello!”
Il messo era un giovane secco come un’acciuga, quasi pelato e col naso adunco, basso e vestito con roba scadente. La sua visione era qualcosa di triste e sconfortante, come di presagio nefasto.
“Uccello del malaugurio” – disse senza alcun freno don Riggio. “Puoi dire a Diego che siamo d’accordo…”. Ma si bloccò per la puzza spaventosa che stava riempiendo la stanza. L’onda d’urto era arrivata. Sterco di mulo secco e nuovo, sudore reimpastato di cosce e glutei, saime di ascelle riarse da settimane stavano ribaltando l’equilibrio di don Riggio. La cortigiana, in rapida ricomposizione, iniziò a tossire, mentre l’iradiddio si accese negli occhi del signore.
“Come osi, lercio suggi mattognu (3), di posare piede infetto nella mia magione! Perdio, puzzi da spavento, portatore di sdingo! Fuori di qui, cesso ambulante!” – e gli sferrò una pedata sulla tibia sinistra, spedendolo al di là della porta, ruzzoloni.
“Don Riggio, aspetti…” – mormorò subito da terra il messo secco, temendo in arrivo un altro calcio meglio assestato. “Ho una notizia ancor più bella: la lava s’è fermata!”
“Minchia?”
“I Monti della Ruina si sono spenti. Ecco qui, guardi” – porse la lettera col timbro di ceralacca e la sigla di don Diego Pappalardo.
Don Riggio la prese con le punte delle dita.
Da un sopralluogo effettuato questa mane dai profondi conoscitori dei luoghi, Alfio Laudani detto Pitiddu, e Giuseppe Moschetto detto Puddu ‘u suggi, che si sono recati da nord nei pressi delle bocche, posso assicurarle che niente di materiale esce più. La colata è finita, Dio sia lodato. Con osservanza, sempre suo fedele, don Diego Pappalardo. 11 luglio 1669.
Rilesse daccapo l’ultima frase. Lentamente.
“Minchia” – disse ancor più lentamente.
In un attimo, veloce purosangue qual era, don Riggio calcolò la successione delle mosse e l’ultimo ostacolo per la vittoria totale. Aveva già vinto, perché Catania s’era salvata, ma non bastava di fronte alle ripetute, incalzanti, piccole processioni di fedeli residui che ogni sera ostentavano i resti della vergine e martire a Ognina, versando lacrime e promesse al mare perché Agata salvasse la sua città di lava dalla lava. Don Riggio si era già opposto al vescovo, che voleva spostare Catania verso Acireale, ma ora stava capendo che era arrivato il momento di onorare gli sforzi dei suoi fedeli e riconciliarsi con lui.
Per l’assodato principio di prima a proposito del comando e della copula, se ne fotté di applicarsi al secondo tempo con la cortigiana. Si vestì velocemente, dando consenso a suo cugino Giovanni, sempre in mezzo ai coglioni, di poter continuare lui in sua vece.
Fece convocare immediatamente Turi Tre Dita, il più grande e grosso fuochista della città, capace di accendere una santabarbara per un diciottesimo compleanno. Una volta, si narra che per la festa di laurea di suo nipote, Turi Tre Dita si sia lasciato prendere tanto la mano che da Augusta, alla visione spropositata di rosso e fuochi pirotecnici a livello del mare, abbiano pensato che una nuova bocca eruttiva si fosse aperta alla Platea Magna (4). Fu lì che, nel bailamme delle deflagrazioni fuorilegge, Turi perse due dita della mano destra.
“Voglio uno spettacolo mai visto prima. Domani sera a Ognina. Ci sarà il vescovo, Turi. Voglio che quando le spoglie di Sant’Agata si fermeranno sulla riva, ci saranno fuochi d’artificio più potenti delle esplosioni dei Monti della Ruina”. Lasciamogli credere che la lava si sia fermata per opera di Sant’Agata. A tutti i cittadini? Cettu, cettu… disse tra sé, scacciandosi una fastidiosa zanzara da dietro la schiena (5).
L’indomani sera lo spettacolo fu talmente grande e inaspettato, che il vescovo di Catania, monsignor Santo D’Agata, rimase folgorato da tanta bellezza di colori e, inorgoglito del riconoscimento miracoloso da parte di don Riggio, lo nominò primo organizzatore della Festa di Sant’Agata.
Turi Tre Dita si fregò le mani, mentre don Diego si allisciava i baffi. Il messo, nei panni di cocchiere, tolti i vestiti, stava iniziando a lavarsi in mare e in tutta sincera umiltà, credette che tanto baccano fosse davvero esagerato per festeggiare il suo contatto con l’acqua.
1– Francesco Fernandez de La Cueva, duca di Albuquerque, viceré in Sicilia di Carlo II di Spagna, nomina don Stefano Riggio quale responsabile unico dell’emergenza eruttiva dell’Etna per la città di Catania, nella primavera del 1669.
2– Traduzione: “Che comandare è meglio di accoppiarsi”. Nel precedente racconto, veniva arbitrariamente ipotizzata la richiesta di 200 donne disponibili, come compenso ai 200 uomini montanari, che da Pedara al comando di don Diego Pappalardo, sarebbero scesi a Catania a dare una mano a don Riggio, nel tentativo di arginare o deviare la colata lavica, che da marzo continuava a fluire dalle bocche dei Monti della Ruina (Monti Rossi, sopra Nicolosi).
3– Traduzione: “Topo di fogna”.
4– La Platea Magna era lo spazio oggi occupato da Piazza Duomo.
5– Pare che sia stato questo gesto istintivo di don Riggio, unito alle parole cettu-cettu (certo, certo n.d.t.), a essere poi ripreso e consolidato nei secoli a venire, come identificativo dei devoti di Sant’Aituzza durante i giorni dei festeggiamenti in suo onore.