In queste sere d’inverno, a volte il mio pensiero va a cercare i contorni e i suoni di una figura d’uomo – chiamiamolo Alfio – , che ho conosciuto per trent’anni. Alfio aveva una di quelle voci che oggi non si trovano più. Non c’era uno stacco tra il silenzio e le sue parole, e quando finiva di parlare, era come se avesse fatto una cosa magica, riponendo con un’imprevista cura l’ultima parola sopra il tappeto di silenzio. Nel mezzo, c’era la melodia. Ho scoperto nel tempo che melody in inglese vuol dire anche armonia, o musica sensu latu (Roberto Benigni lascia tradurre così l’ultima frase della sua canzone Quanto t’ho amato, in una versione doppia anglo-italiana: in love words count nothing: it matters only the melody/in amor le parole non contano: conta la musica).
Sembrava che Alfio parlasse in una sonorità brillante, dove le parole nascevano e morivano piano dentro un’espressione breve – perché sempre uomo di montagna era –, capace però di deviare la luce. Alfio.
Il suo contorno fisico era asciutto, quasi osseo, senza sprechi. Agilissimo su ogni terreno, tanto da meritarsi in paese l’appellativo di Affio-crapazza (Alfio-capra, ndt), attraversava le sciàre danzando e canticchiando insieme. Metteva uno stecchino tra i denti, lo passava da un lato all’altro, e intonava pianissimo una certa musica. E con questa faceva tutto. Guidava la sua 600 nella sere di nebbia a fari spenti, perché così ci vedeva meglio. Non beveva acqua, che va bene per i malati. Ma vino rosso. Non mangiava dolci, che sono per le signorine. Ma solo pasta asciutta col pomodoro e carne arrosto. Tutti i giorni. Non si scomponeva di fronte a niente, diceva che “bellu tempu e malu tempu, nun dura tuttu u tempu”. Portava sempre un berretto sulla testa, che si toglieva velocemente quando scendeva in paese, sostituendolo con una coppola. Mai il capo scoperto, quasi fosse stato uno gnomo. Invece, Alfio sparava ai ladri. Si guadagnava da vivere vigilando una zona di villeggiatura a monte di uno dei paesini di ultima fascia etnea.
Una volta riuscì a beccarne due che stavano lavorando insieme dentro la casa di un professore medico di Catania. Con lo stecchino tra i denti, frugò sotto il plaid rosso sul sedile di dietro della 600 e imbracciò ‘a scupetta (la doppietta, ndt), intimando a tutt’e due i ladri di camminare fino in paese, a tre chilometri. Uno di loro scartò di lato e lui sparò in aria per fermare l’altro. Arrivarono così alla caserma dei Carabinieri, sul finire di un giorno d’inverno: il ladro davanti e Alfio dietro, con la scupetta e lo stecchino tra i denti. Citofonò e disse: “Marasciallo, Affio sugnu, rapissi ca ci puttai ‘n rialu”. Solo quando il regalo fu consegnato, Alfio alzò al cielo la canna del fucile. Il maresciallo però fu curioso. Si avvicinò e gli disse serio: “Ma cosa canta, don Affiu?”. Alfio, ancora più serio, si passò lo stecchino dall’altra parte delle labbra e rispose così: “Vitti ‘na crozza, marasciallo. Chi è: ‘na canusci?”.