Primi di ottobre dell’anno 317.984 a.C. (per farla breve, 320.000 anni fa). Mattina, sulle spiagge di Paternò.
Buru si era appena svegliato da un sonno piuttosto agitato – che poi era la normalità per tutti gli uomini e le donne del Pleistocene: i pericoli stavano ovunque e la vita era sempre un rischio.
“Turu… O Turu!”
Turu era suo cugino, dicevano così agli altri che incontravano per non dover finire la discussione a pietrate in faccia. I tempi erano ancora in via di sviluppo. Sì, il fuoco l’avevano scoperto, viaggiavano, fumavano erba e facevano sesso libero, ma non potevano certo dire che loro due si amavano. Buru e Turu dovevano essere cauti, capire con chi avevano a che fare, il grado di apertura mentale; ed era difficile, perché nove volte su dieci finiva a manate. O a pietrate.
La cosa buona era che la peggio toccava quasi sempre agli altri. Turu era un colosso, per quei tempi: un metro e settanta per settantacinque chili di muscoli guizzanti (e un tatuaggio fatto da Buru con la selce rovente sulla spalla sinistra, il suo lato preferito; raffigurava la testa di un mostro che solo lui aveva visto in sogno, diceva pure che conosceva il suo nome e cognome: Tiranno Sauro). Buru invece era nato di pelle più scura, con i capelli ricci e neri, basso, ma rapido e preciso come una saetta, impossibile prenderlo (era capace di saltare da un ramo all’altro con una facilità impressionante, come se avesse avuto una sorta di richiamo genetico; sua madre, sulle sue acrobazie da circo, gli diceva scherzando che gli mancava la coda).
Erano partiti molti anni prima da un posto chiamato Lazio, dove i grandi anziani di diverse tribù – gente, s’intende, di venticinque-ventotto anni, per enorme fortuna scampata a malattie, incendi, carestie, guerre e attacchi di orsi spelei, che ora si metteva d’accordo per comandare – si erano inventati la Cosa Massima e le sue Regole. Una bischerata di riunione collettiva mattutina, in cui si stava in silenzio con le mani giunte per pensare tutti insieme. Solo che c’era sempre uno di loro, anziano, che diceva la sua a voce alta. Blaterava invenzioni di raffreddori guariti e ferite rimarginate, fantasie di moltiplicazione degli sgombri, e anche di morti, smembrati dall’orso speleo, risistemati e ritornati in vita perfetti. E soprattutto – soprattutto –, quelle regole introdotte ogni volta con la erre esagerata (che se ci fosse stata la scrittura si sarebbe detta Erre Maiuscolo), quelle regole in cui i buoni erano loro e i cattivi gli altri: la famiglia era una fissa, a caccia poi solo gli uomini, raccogliere bacche e pulire la caverna invece era delle donne. Salvo poi scovare che fornicavano alla grande con le donne degli altri, che facevano cacciare gli altri, che pretendevano le pareti della caverna linde e profumate di lavanda. Naturalmente, in tutto questo nuovo mondo di virtù, non c’era posto per gli amori di sesso uguale. Dovevano pur inventarsi un nemico, e presero quello meno numeroso.
Turu stava sistemando la sua nuova invenzione: la secca per i saraghi, dove poi ucciderli con le pietrate. Sentiva Buru, ma non gli rispose per non spaventare i primi due saraghi che erano lì lì per entrare nella trappola.
La Cosa Massima e le sue Regole si espanse più rapida della lava che fuoriusciva dall’Area Vulsina, e loro, a un certo punto, presero armi e bagagli (si fa per dire, perché avevano sì qualche buona selce, ma scarsi indumenti e nessun trolley) e si diressero a Sud, dove si ventilava ci fossero spiagge magnifiche e gente accogliente.
Attraversarono tutta la terra che c’era nell’Italia di allora, e dai Monti Nebrodi arrivarono alla spiaggia di Paternò. C’era un ampissimo golfo con acque calme e basse – una delizia! –, ricche di pesci mai visti, e che mai questi avevano visto l’uomo – L’uomo. Certo, Buru e Turu non erano come gli uomini dell’Antropocene, avevano soprattutto un toro sovraorbitale come se avessero preso una tremenda botta frontale; e poi ridevano goffamente e non si lavavano i denti né le ascelle e avevano pidocchi grandi come formiche.
Pare che la prima làppara dei fondali di Paternò che vide i contorni del viso di Turu, morì di spavento – e fu per questo che Turu credette di essere un bravissimo pescatore di questi mari.
Ad un tratto, “L’ù presu! L’ù presu!” gridò sguaiatamente, saltando sbilenco come un pitecantropo, e sputando e raspandosi le natiche in preda alla gioia.
Buru si affacciò e vide la scena sgangherata. E si portò la mano sugli occhi.
“Sei una bestia! Va bé che non c’è nessuno, che siamo solo noi in questa terra desolata, ma comportati da uomo, cazzo! Te lo devo dire io che assomiglio a una scimmia…”
In quel preciso momento, un tremendo boato sovrastò ogni cosa, la terra si fessurò e una ciclopica colonna di vapore si elevò da dietro la spiaggia, alzandosi al cielo fino a tendere al sole, che guardava senza fare pio.
“Minchia…” esclamò Turu, mentre il rapidissimo Buru aveva coperto già i primi cento metri col tempo stratosferico di nove secondi netti – rimasto imbattuto per sempre; neanche il suo gigantesco discendente Usain, nella sua splendida carriera, riuscì mai ad abbassarlo. “Non si possono prendere i saraghi così? A chi devo chiedere il permesso?”, domandò con un vezzo di sfida.
La Terra gli diede una risposta senza tregua, con un ciclo eruttivo eccezionale per quell’area. Dopo l’esplosione freatomagmatica, l’eruzione continuò declinandosi in materiale piroclastico e scorie per diverse settimane, un tempo troppo lungo per Turu e Buru, che, stanchi di notti insonni per le esplosioni, passarono a migliori lidi – pare che si ritirarono nella pace dei Nebrodi a cacciare cervi e arrostire funghi alla brace, e ad amarsi senza disturbo sulle rive di un lago stupendo, all’ombra dei faggi, che in autunno ispirano abbracci infiniti.
Lì, invece, sulla spiaggia di Paternò, in capo a un paio di mesi di attività, si erse un cono di alcune centinaia di metri. E quando, la sera del ventiquattro dicembre, tutto si fermò come per incanto, era già cambiato il futuro di quella parte di mondo.
L’Etna stava per nascere e niente sarebbe stato più come prima. Nemmeno il cono di scorie, che nei duecentomila anni a venire sarebbe stato smantellato da pioggia e vento, e come ricordo di quel tempo delle spiagge solitarie di Paternò, sarebbe rimasto solo un cilindro di magma, come un collo. In inglese detto neck. O Motta, un rialzo, una collina sul futuro che sarebbe arrivato a cambiare l’orizzonte.