Santo parlava bene, in pubblico argomentava senza sbavature, scriveva articoli approfonditi e interessanti sul periodico locale. Era piccolo di statura, lo sguardo vispo, pochi capelli: quasi uno gnomo moderno. Attento e sensibile ai fatti e alle persone, un giorno di primavera, in un pomeriggio di grande, inusuale, caldo, Santo produsse qualcosa di inedito. In un pezzo che aveva appena finito di scrivere, nel secondo rigo c’era questo: “Nell’area dei crateri zommitali…”. Il responsabile del periodico, Fermo Arcidiacono, era un uomo anziano, diabetico e vedovo: non riceveva più alcuno stimolo dalla vita, che gli transitava accanto come una rapida, vista da dietro il vetro di un pullman guasto.
Non ci fece caso. Lesse, e i suoi occhi annacquati lentamente andarono oltre. Il capoverso del terzo rigo iniziava così: “L’imbortansa della guestione è tale che pisogna brendere una degisione inasbettada…”. L’anziano Fermo si mosse. La sua molle consistenza ballò di piccole onde sismiche, che scossero anche le ciabatte di un pelo. Continuò a leggere l’articolo di Santo, riprendendo la propria lentissima velocità di navigazione fino a poche frasi dopo, quando le sopracciglia ripresero vita allo stesso modo di un corpo attraversato da corrente elettrica. “L’azzezzore gomunale…”.
Il diabetico Fermo trasalì, innescando, dallo spavento, una piccola serie di colpi di tosse. Gli venne un dubbio e andò all’inizio, al titolo, che aveva superato di slancio – si fa per dire. Mazgalucia, i nuovi orizzondi del baese bedemondano, di Sando Paternostro. “Minchia… – fece sottovoce il vedovo Fermo, per non vergognarsi di quel che stava per commentare. Minchiaaa, si è firmato Sandooo”. E si mise le mani nei capelli. Il grasso Fermo stette diversi minuti, prima di decidersi a telefonare a Santo Paternostro, il più professionale dei giornalisti dei paesi etnei, il più vigile, il più bravo, il migliore insomma. E anche il più elegante, con quei baffetti appena accennati e perfettamente curati.
“Santo, scusa, ma avrei da chiederti più d’una cosa riguardo al tuo pezzo… come dici? no, non c’è bisogno che ti disturbi a venire… possiamo parlare al telef… va bè, come vuoi, ti aspetto”. Il gelatinoso Fermo, nell’attesa, ripensò alle caratteristiche della vita di Santo, che conosceva da vent’anni: tre case, tre figli, tre mogli, e l’ultima presa in matrimonio al Comune di Mascalucia giusto tre mesi prima. Si ricordò pure che Santo aveva tre lauree: lettere, giurisprudenza e storia dell’arte. Un profilo da perfezione in onore al numero tre. “Un inno all’umana esattezza!” gorgogliarono le sue corde vocali allentate.
Quando Santo arrivò, rimase in piedi.
“Accomodati…”
“No, crazie”.
Come crazie?
“Sando, ehm… Santo. Santo, ecco credo che forse hai da dirmi qualcosa? Nel senso che… che ti succede, io non ho mai letto una minima imperfezione grammaticale, lessicale, formale della tua scrittura che ormai conosco da decenni. Stai bene, Santo? Mi devo preoccupare per la tua salute?”
Santo Paternostro non fece una piega e non profferì parola. Con una mossa da grande cinema, si levò la giacca, si slacciò la cravatta, si sbottonò in silenzio i primi bottoni della camicia, e impavidamente, allo slabbrato Fermo mostrò il collarino ecclesiastico.
Poi, senza abbassare lo sguardo, si avvicinò alla scrivania, si staccò da sopra la bocca due strisce di sottile pelo molto curato, e con un gesto leggero gliele consegnò. “Così sarà” –, disse soltanto, senza sbagliare una sola lettera. E si avviò verso la porta, per scomparire per sempre dal giornale, da Mascalucia e dalle sue famiglie.
Fermo Arcidiacono non si mosse dalla poltrona. Ma compì un gesto che da un sacco di tempo non aveva osato più. Aprì un cassetto della scrivania, tirò fuori un sigaro dalla scatola, lo portò in bocca e lo accese, tenendolo ben stretto tra i denti marci. Poi, come un boato interno, il moto lo sconvolse del tutto e scoppiò a ridere da non poterne più.